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Autore: Raffaele Tovino 23 apr, 2023
Chi si aspettava di vedere rafforzata la sanità pubblica, soprattutto laddove essa è più carente e cioè al Sud, è destinato a rimanere deluso. Nel Def recentemente licenziato dal Consiglio dei ministri, si prevede infatti, nell’immediato, una riduzione della spesa per il personale sanitario seguita, nel medio-lungo periodo, da un aumento piuttosto contenuto. Tanto che molti, anche tra i non addetti ai lavori, hanno cominciato a chiedersi: come pensa, il governo Meloni, di migliorare la qualità dell’assistenza oltre che colmare tutte le lacune che la pandemia ha impietosamente evidenziato? La domanda non è peregrina se analizziamo i numeri. Il Def parla di payback per i dispositivi medici e di incentivi per rispondere alla carenza di personale nei pronto soccorso, ma dice poco o nulla sull’operatività delle case e degli ospedali di comunità contemplati dal Pnrr. Quest’ultimo, infatti, prevede che le Regioni realizzino 1.350 case di comunità e 400 ospedali di comunità con l’obiettivo rafforzare la medicina territoriale. In Emilia- Romagna, unica regione italiana a vantare già un certo numero di cosiddette “case della salute”, questa rete ha dimostrato di funzionare: gli accessi inappropriati al pronto soccorso sono diminuiti di oltre il 16% e i ricoveri per patologie croniche del 2,4%, mentre è aumentata del 9,5% l’assistenza medica e infermieristica a domicilio. Nelle case di comunità, però, si prevede la presenza di 7-11 infermieri, di un assistente sociale e di 5-8 unità di supporto. Numeri simili per gli ospedali di comunità, dove dovrebbero lavorare tra 7 e 9 infermieri, un medico e un paio di unità di altro personale sanitario. Insomma, per conseguire i risultati già registrati in Emilia-Romagna servirebbe un “esercito” di nuovi medici e infermieri. E invece il governo Meloni che cosa fa? Nel Def ipotizza una riduzione della spesa per il personale sanitario al 6,2% del pil nel 2025 e un aumento al 7% tra il 2040 e il 2050. Proprio così. Il rischio, però, è che senza quell’esercito di medici e infermieri che appare già da tempo indispensabile, la “guerra” per il miglioramento dell’assistenza territoriale sia destinata a essere persa. Guardiamo in casa nostra: nella sola Asl di Bari, fino a poche settimane fa, risultavano non coperti 19 posti di assistenza primaria del 2022, ai quali se ne aggiungeranno altri nel 50 nel 2023, con la conseguenza che mancano all’appello ben 69 medici di famiglia. Non va meglio per i medici ospedalieri: secondo la Cgil, che poche settimane fa è scesa in piazza per protestare proprio contro le inefficienze della sanità locale, ne mancano all’appello addirittura 3mila in tutta la Puglia. In definitiva, ci sono edifici da costruire e nuovi servizi da strutturare, ma Palazzo Chigi sembra non avere le idee troppo chiare su come intende animare quegli stessi edifici e quegli stessi luoghi. Poco dice sulle risorse disponibili per assumere il personale, ma ancora meno parla di specializzazioni, formazione universitaria e programmazione delle figure professionali indispensabili per rivoluzionare la società e magari correggere le antiche sperequazioni che, anche sotto il profilo dell’assistenza, ha contrapposto regioni di serie A e di serie B. Sul personale servono scelte strategie chiare. Altrimenti il Paese dimostrerà di aver capito poco o nulla della dura lezione impartita dal Covid. Raffaele Tovino dg A.N.A.P.
Autore: Raffaele Tovino 16 apr, 2023
Certo, lo scenario economico impone prudenza. Eppure non sembra ingeneroso sottolineare come al Documento di economia e finanza (Def), recentemente licenziato dal Consiglio dei ministri, manchi il coraggio indispensabile per rilanciare l’Italia, a cominciare dal Sud, una volta per tutte. Lo dimostrano due aspetti del testo illustrato dal ministro Giancarlo Giorgetti: le poche risorse destinate alla riduzione del cuneo fiscale e la mancata previsione di misure realmente in grado di sostenere le imprese e, per questa strada, gli investimenti e le assunzioni. Partiamo dal primo elemento. Nel Def spiccano maggiori risorse sul 2023 che il governo Meloni ha prudentemente quantificato in tre miliardi e che saranno spese per portare la crescita del pil dallo 0,9 all’1%. Sempre il governo Meloni ha annunciato che quei soldi saranno utilizzati per la riduzione del cuneo fiscale, attraverso un taglio dei contributi sociali in busta paga, a beneficio dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi. Si tratta di un segnale positivo, ma l’entusiasmo cede ben presto il passo alla delusione se si riflette su alcuni dati: in Italia ci sono 23 milioni di lavoratori, sicché tre miliardi non bastano per far sì che il taglio dei contributi sociali sia percepito nel momento in cui una parte di quegli stessi lavoratori incassa lo stipendio. In altri termini, il beneficio si tradurrebbe in pochi euro in più al mese. Ma che se ne fa un lavoratore, magari con moglie e un paio di figli a carico, di una pizza o di un pacchetto di sigarette in più ogni trenta giorni? Quando nel 2014 introdusse il bonus di 80 euro, l’allora governo Renzi stanziò dieci miliardi, più del triplo di quanto oggi prevede l’esecutivo Meloni. L’altro aspetto riguarda le imprese. Nei suoi 12 punti, di fatto, il Def le dimentica. All’interno del testo, infatti, c’è soltanto la promessa di una riduzione dell’Ires per le imprese che assumono o che fanno determinati tipi di investimenti. Il resto è un mare magnum di generiche previsioni di aiuti contro l’inflazione e di misure per il rafforzamento della capacità produttiva. Si parla di una riduzione della pressione fiscale dall’attuale 43,3 al 42,7% nel 2026, il che lascia sicuramente ben sperare. Ma è troppo poco per un Paese in cui decenni di miopi politiche di sviluppo, burocrazia in costante crescita e continue crisi congiunturali hanno devastato quelle piccole e medie imprese che da sempre costituiscono il tessuto connettivo dell’economia nazionale. Tirando le somme, propositi come la riduzione della pressione fiscale e il rafforzamento della capacità produttiva sono certamente condivisibili, soprattutto per quanto riguarda il Mezzogiorno. Certi obiettivi, però, vanno perseguiti con le giuste risorse e con le giuste strategie. Altrimenti rischiano di tramutarsi nell’ennesimo spot elettorale, magari utile per guadagnare qualche punto nei sondaggi o una manciata di voti in più in occasione delle elezioni, ma certo non per rilanciare un Paese che ha invece bisogno di sviluppo, prospettive e fiducia. Raffaele Tovino *dg Anap
Autore: Raffaele Tovino 09 apr, 2023
A un occhio poco attento, i numeri del decreto appena approvato dal Consiglio dei ministri potrebbero sembrare straordinari: 1.057 assunzioni nei Ministeri, di cui 300 al Viminale, e altre 1.968 nelle forze dell’ordine, senza dimenticare la possibilità di stabilizzare i precari che negli ultimi otto anni abbiano lavorato per almeno 36 mesi non consecutivi al servizio di Comuni, Città metropolitane, Province e Regioni. Il tutto per colmare quelle carenze di organico, più volte sottolineate dalla Svimez con specifico riferimento agli enti locali, che stanno rallentando l’attuazione del Pnrr e hanno portato il ministro Raffaele Fitto a giudicare addirittura “matematica ” la mancata realizzazione di alcuni progetti contenuti nel Piano entro il 2026. A parte la perplessità relativa al Ministero della Giustizia, inspiegabilmente escluso dal programma di reclutamento straordinario di personale appena varato dal governo Meloni, c’è un aspetto che merita di essere sottolineato. Il decreto risponde all’esigenza di “rimpolpare” a stretto giro le pubbliche amministrazioni direttamente coinvolte nell’attuazione del Pnrr, ma non è certo una misura strutturale capace di risolvere una volta per tutte l’atavico problema della carenza di organico negli enti pubblici. Ed è proprio sulla necessità di un grande programma di rafforzamento della pubblica amministrazione, soprattutto al Sud, che Palazzo Chigi dovrebbe ragionare e intervenire in modo serio. L’Italia, infatti, è reduce da un decennio drammatico in cui il blocco del turnover ha ridotto il personale in servizio negli enti pubblici da 3,5 a 3,2 milioni (dunque di ben 300mila unità), facendo peraltro salire l’età media dei dipendenti a 50 anni. La Puglia non è estranea a questa tendenza, se si pensa che a Bari e dintorni mancano all’appello circa 10mila dipendenti pubblici, come il segretario della Cgil Fp locale Domenico Ficco ha opportunamente ricordato sulle pagine de “L’Edicola del Sud”: una voragine che il decreto appena licenziato dal Consiglio dei ministri non riuscirà mai a colmare. Soltanto nel 2021, in Italia, si è ripreso ad assumere, mentre nel 2022 gli ingressi nella pubblica amministrazione sono stati circa 170mila, di cui 156mila volti a sostituire il personale pensionato. Per il 2023, stando a quanto annunciato dal ministro Paolo Zangrillo, sono in programma altre 150mila assunzioni e così si andrà avanti anno fino al 2026. Certo, gli sforzi compiuti dal governo Meloni per superare l’impasse del Pnrr e rafforzare la pubblica amministrazione lasciano ben sperare. Ma bisogna fare molto di più per far sì che il Paese si dimostri all’altezza delle sfide epocali dalle quali è atteso nei prossimi anni. È indispensabile, innanzitutto, semplificare e sburocratizzare le procedure di reclutamento all’interno della pubblica amministrazione. La pandemia ha di fatto costretto l’Italia a dematerializzare tanti passaggi di quell’iter, puntando su un’ampia digitalizzazione di documenti e step procedimentali. Non ci si può né ci si deve accontentare, ma piuttosto bisogna impegnarsi per rendere le assunzioni nel settore pubblico sempre più “smart”, seppur nel doveroso rispetto dei criteri di trasparenza. Altrettanto indispensabile è rendere il lavoro nella pubblica amministrazione maggiormente attrattivo. Il che non vuol dire soltanto retribuire in modo dignitoso i dipendenti, ma far comprendere loro che nel settore pubblico possono crescere a livello personale, da un lato, e, dall’altro, contribuire in maniera decisiva allo sviluppo della comunità nazionale. Quindi non si tratta semplicemente di rispondere alla “emergenza” rappresentata dal Pnrr, ma di attrezzare l’Italia in vista di una lunga serie di appuntamenti di cruciale importanza. Anche da questo si misureranno la credibilità e la visione politica dell’attuale classe politica. Raffaele Tovino *dg Anap
Autore: Raffaele Tovino 03 apr, 2023
E ora? Che ne sarà del Pnrr? L’interrogativo sorge spontaneo se si pensa alle parole del ministro Raffaele Fitto che ha detto di ritenere “matematico” il mancato conseguimento di tutti gli obiettivi entro il 2026, senza però chiarire quali siano i progetti a rischio. Tralasciando il “difetto di comunicazione” dell’ex presidente pugliese, che con le sue frasi criptiche ha alimentato polemiche e tensioni delle quali tutti avrebbero fatto a meno, è d’obbligo una riflessione sul ruolo attribuito agli enti locali nell’attuazione del Pnrr. A cominciare dai Comuni, titolari di investimenti per 28 miliardi. Di questi soggetti istituzionali, oltre che di Ministeri e Regioni, non è stata considerata la storica fragilità. Ed è proprio questo l’errore commesso dai governi che si sono finora alternati nella gestione del Pnrr. La debolezza di enti come i Comuni non è stata compensata da misure volte non solo a colmare le carenze di organico, ma anche e soprattutto a dotare tutte le pubbliche amministrazioni di competenze specialistiche adeguate. A nulla sono valsi gli alert lanciati dalla Svimez che ha più volte sottolineato l’inadeguatezza delle macchine comunali chiamate ad affrontare la “corsa” del Pnrr.A questa situazione il governo Meloni ha inteso rimediare istituendo la struttura di missione che, dipendendo direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, è strettamente legata alla stessa premier. In più, Palazzo Chigi ha previsto il dimezzamento dei tempi entro i quali devono essere vagliati i vari progetti e previsto la possibilità di un commissariamento nell’ipotesi in cui gli enti locali non siano in grado di rispettare le scadenze degli interventi. Basterà quest’opera di riorganizzazione? Il rischio è che il rimedio sia peggiore del male e la Corte dei conti l’ha chiarito senza troppi giri di parole. Secondo la magistratura contabile, infatti, la riorganizzazione richiede “un’attua zione senza soluzione di continuità con gli attuali moduli organizzativi, al fine di evitare che la fase di avvio delle nuove strutture sia caratterizzata da tempistiche e difficoltà simili a quelle già segnalate con conseguenti rischi di rallentamenti nell’azione amministrativa proprio nel momento centrale della messa in opera di investimenti e riforme”. Insomma, se è vero che l’Italia ha finora rispettato tutte le scadenze semestrali previste dal Pnrr e che non più tardi del 30 dicembre scorso ha comunicato alla Commissione europea di aver centrato tutti i 55 obiettivi fissati per il periodo giugno- dicembre 2022, è altrettanto lecito chiedersi se il Paese sarà in grado di completare tutti gli interventi entro il 2026, anche e soprattutto alla luce delle modifiche gestionali introdotte dal governo Meloni. Le perplessità non mancano e sono di non poco peso, come la Corte dei conti ha giustamente osservato. Anche perché qui ci sono in gioco due valori: la credibilità dell’Italia a livello internazionale, a cominciare da quelle istituzioni europee che hanno sempre guardato Palazzo Chigi con un certo sospetto, e il rilancio del Mezzogiorno, che non può certo prendersi il lusso di veder passare il treno del Pnrr. Raffaele Tovino *dg Anap
Autore: Raffaele Tovino 27 mar, 2023
Il sì del governo Meloni al ponte sullo stretto di Messina è stato accompagnato dalla solita ridda di cifre, altolà e polemiche: da una parte il ministro Matteo Salvini, secondo il quale l’opera darebbe lavoro a 120mila persone e costerebbe meno di un anno di reddito di cittadinanza; dall’altra, invece, il solito ambientalismo radical chic, sempre pronto a opporsi a certe infrastrutture strategiche. Nel mezzo c’è la posizione, prudente ma realista e non ottusamente ideologica, del sindaco napoletano Gaetano Manfredi che dovrebbe ispirare un dibattito serio sulle grandi opere. Il primo cittadino della terza città d’Italia si è detto sostanzialmente favorevole al ponte sullo stretto, compiendo così un atto di assoluta rilevanza politica. Le sue parole, infatti, sono quelle di un sindaco espressione di Pd e M5s che però, su questo punto, sceglie di parlare da ingegnere e non da politico. Manfredi non piega le ragioni della tecnica a quelle dell’ideologia, accetta di entrare in conflitto anche con l’ambientalismo radicale che sostiene la sua amministrazione comunale e, come hanno fatto la premier Meloni e il segretario Cgil Landini, alimenta l’indispensabile confronto. Il confronto pubblico è necessario sui temi strategici per lo sviluppo dell’Italia e, in particolare, del Sud. Al momento, invece, gli steccati ideologici sembrano insuperabili. Salvini “spara” cifre monstre proprio come hanno fatto, in passato, altri esponenti politici: nel 2001 l’allora leader del centrosinistra Francesco Rutelli parlava di 17mila nuovi posti di lavoro in sette anni; nel 2011 l’allora ministro Altero Matteoli ipotizzava 40mila assunzioni l’anno; nel 2016 l’ex premier Matteo Renzi ipotizzava 100mila occupati in più, ma senza specificare le fonti e distinguere tra contratti direttamente legati ai lavori e indotto. Insomma, parole e numeri troppo spesso enunciati per mera convenienza politica. Sulla sponda opposta, invece, restano gli alfieri dell’ambientalismo cieco, quello che si oppone sempre a tutto e a prescindere, e gli immancabili ben altristi, quelli per i quali l’opera o la misura indispensabile per il Sud e per l’Italia è puntualmente un’altra. Sarebbe il caso, dunque, di aprire un dibattito serio sulle grandi opere e, soprattutto, sulle condizioni in cui tanto le pubbliche amministrazioni quanto le imprese si trovano a operare. Pensiamo al Pnrr. Nel corso di un convegno organizzato dall’Ance a Lecce, per esempio, i sindacati hanno evidenziato quanto sia difficile rispettare il cronoprogramma dettato dall’Europa, soprattutto per quanto riguarda i 21 progetti di efficientamento energetico e riqualificazione urbana. In Puglia occorrono mediamente nove anni, Bruxelles pretende che i cantieri vengano chiusi in sei. Bisogna, dunque, trovare soluzioni per rafforzare gli organici delle pubbliche amministrazioni chiamate a vagliare i progetti, sostenere le imprese nel reperire manodopera qualificata, evitare in tutti i modi che le grandi opere restino confinate nel libro dei sogni e che il Pnrr si riveli un clamoroso flop. Per farlo, però, è indispensabile andare oltre gli steccati ideologici, aprirsi al confronto e ragionare sulla base dei numeri e non del proprio tornaconto elettorale. Manfredi ci ha provato. Altri ci riusciranno? Raffale Tovino *dg Anap
Autore: Raffaele Tovino 18 mar, 2023
C’è una novità nel decreto approvato dal Consiglio dei ministri riunito a Cutro, la cittadina calabrese al largo della quale si è verificato il naufragio costato la vita a 72 migranti. Una novità che potrebbe segnare una svolta importante per le imprese agricole e turistiche, perno dell’economia di regioni come Puglia e Basilicata. Mi spiego: dai primi cinque articoli del testo traspare una maggiore apertura all’immigrazione per lavoro che, se per un verso non risolve il problema del diritto d’asilo per i disperati in fuga da fame e guerre, per l’altro risponde alle istanze di migliaia di imprese a caccia di manodopera. Bene così, dirà qualcuno. Sì, se non fosse per la solita burocrazia e per alcune discutibili scelte del Governo che rischiano di rivelarsi controproducenti. Partiamo dalle norme appena approvate. L’allargamento dei flussi di lavoratori extracomunitari in ingresso nel triennio 2023-2025 sarà definito con Dpcm, anche in base all’analisi del fabbisogno del mercato del lavoro, al pari delle quote massime di stranieri da ammettere nel territorio dello Stato per lavoro subordinato, stagionale o autonomo. Le verifiche in relazione agli ingressi dei stranieri spettano, per quanto riguarda l’osservanza dei contratti e la congruità del numero delle richieste presentate, ai consulenti del lavoro e alle organizzazioni datoriali più rappresentative sul piano nazionale. Superati i controlli, viene rilasciata l’asseverazione che il datore è tenuto a produrre insieme con la richiesta di assunzione dello straniero. Non sono tenute a presentare alcuna asseverazione, invece, le associazioni di categoria più rappresentative che abbiano sottoscritto un protocollo col quale si impegnano a garantire l’osservanza delle norme contrattuali da parte dei propri associati. La prima perplessità riguarda l’effettivo snellimento delle procedure per l’ingresso e l’assunzione degli stranieri. Alla costante priorità che la destra riconosce alle istanze securitarie, infatti, si aggiunge la necessità di verificare la disponibilità di candidati italiani per i posti vacanti. Il governo italiano, dunque, intende muoversi in maniera differente rispetto a quelli di Francia, Spagna e Germania che alla carenza di manodopera rispondono sanando, su base individuale, la posizione degli immigrati irregolari già inseriti nel mercato del lavoro, senza però appesantire le già farraginose procedure con ulteriori verifiche e autorizzazioni all’ingresso. Non bisogna dimenticare, inoltre, che il decreto prevede quote riservate ai lavoratori di “Stati-amici” che promuovano campagne mediatiche sui rischi dell’immigrazione irregolare: significa che le maglie saranno più larghe per i tunisino, ad esempio, e meno larghe per chi proviene da altri territori. Sullo sfondo, poi, resta il problema dei numeri. Il primo decreto flussi ha assicurato ad agricoltura e turismo una quota di lavoratori stagionali pari 44mila unità, a fronte dei 42mila previsti nel 2021, riservandone 22mila, a fronte dei 14mila del 2021, alle organizzazioni agricole firmatarie di un protocollo col Ministero del Lavoro. Può bastare? Ancora no, se si pensa che, secondo Coldiretti, alle imprese agricole servono almeno 100mila stagionali che, al momento, sembrano introvabili. Il pericolo, dunque, è che le innegabili aperture contenute nel decreto di Cutro e nel decreto flussi siano neutralizzate dalla burocrazia, resa sempre più pachidermica dall’impostazione ideologica e dalle istanze securitarie che il governo di destra intende assecondare. Servirebbero, invece, procedure più snelle e più coraggio per rispondere alla carenza di personale che, dopo la crisi legata al Covid e quella conseguente alla guerra in Ucraina, rischia di paralizzare migliaia di imprese, soprattutto nel Mezzogiorno. Raffale Tovino *dg Anap
Autore: Raffaele Tovino 12 mar, 2023
RAFFAELE TOVINO* La bozza di riforma fiscale ipotizzata dal Governo ha riaperto il dibattito non solo sull’abnorme quantità di tasse che gli italiani devono pagare, ma anche sulla necessità di interventi volti a ridurre le disuguaglianze sociali. In questo senso, si sa, l’imposizione fiscale è uno strumento formidabile ed è proprio su tale aspetto che si appuntano le critiche di molti addetti ai lavori. Alla riforma ipotizzata dal governo Meloni si contesta la volontà di migliorare la condizione del ceto medio-alto, privilegiando i lavoratori autonomi, col rischio di disegnare un sistema iniquo, in cui le frange più deboli della popolazione devono fare i conti anche con la stretta su uno strumento di protezione sociale come il Reddito di cittadinanza. L’ampliamento dei divari, dunque, è sempre in agguato ma, nello stesso tempo, uno strumento capace di rafforzare l’occupazione, stimolare i consumi e nel contempo ridurre le disuguaglianze c’è e si chiama taglio del cuneo fiscale. Basta dare un’occhiata all’ultimo rapporto Taxing Wages stilato dall’Ocse per comprendere come, nel nostro Paese, il peso del fisco sul lavoro sia tra i più consistenti del mondo industrializzato, soprattutto per quanto riguarda i lavoratori con figli a carico. Nel 2021 la differenza tra il costo per il datore di lavoro e la retribuzione netta percepita dal dipendente è stato pari al 46,5%, in calo di 0,4 punti rispetto al 2020 ma comunque tale da collocare l’Italia al quinto posto della poco lusinghiera classifica dei Paesi aderenti all’Ocse in cui il cuneo fiscale è più alto. Numeri che hanno spinto il governo Meloni a prevedere, nella legge di bilancio per il 2023, uno sconto sulle trattenute in busta paga pari al 3% per chi ha una retribuzione lorda annua fino a 25mila euro, cioè per 15 milioni di persone, e pari al 2% per chi invece guadagna tra 25mila e 30mila euro lordi ogni anno. L’obiettivo è portare il taglio del cuneo fiscale al 5% entro i prossimi tre anni, come ha precisato il ministro Adolfo Urso. Ecco, il taglio del cuneo fiscale può compensare quel vantaggio che alla classe medio-alta deriverebbe dalla rimodulazione degli scaglioni Irpef, dall’abolizione dell’Irap e dalla riduzione dell’Ires per chi non distribuisce ma investe gli utili societari, destinate a essere inserite nella riforma fiscale. È sul cuneo fiscale, quindi, che il Governo deve intervenire al più presto, magari con un ulteriore “taglio- choc” invocato dalle forze politiche. Il principale effetto di una forte “sforbiciata” del carico fiscale sui redditi più bassi è presto detto: più soldi in busta paga per i lavoratori che guadagnano di meno, senza ulteriori aumenti dei costi per le imprese e senza intaccare i contributi a fini pensionistici. Se poi alla progressiva “demolizione” del cuneo fiscale si associasse la conferma degli sgravi dei contributi previdenziali dovuti dai datori di lavoro, misura che il governo ha prorogato fino al 31 dicembre di quest’anno, per le imprese e i lavoratori meridionali potrebbe presto arrivare una svolta positiva. Qualcuno obietterà: e le coperture dove le troviamo? La risposta è semplice: dal taglio della spesa pubblica improduttiva che da decenni impedisce di destinare risorse adeguate a misure indispensabili per il rilancio dell’economia nazionale, a cominciare proprio da quella del Mezzogiorno. Raffaele Tovino *dg Anap
Autore: Raffaele Tovino 06 mar, 2023
I risultati dell’indagine sulla cosiddetta “settimana cortissima”, condotta dalla società di ricerca Autonomy su 61 aziende e 2.900 lavoratori nell’intero Regno Unito, lasciano ben sperare. Quattro dipendenti su dieci meno stressati e più in salute, la metà entusiasta della possibilità di conciliare più facilmente impegni professionali e personali, la produttività media delle aziende in ascesa: tutto sembra giocare a favore di un’organizzazione del lavoro “spalmata” su quattro giorni.  In effetti, una simile rivoluzione del mercato e della cultura del lavoro potrebbe accompagnare, come il segretario generale della Cisl ha recentemente ribadito in un’intervista al Mattino, la trasformazione tecnologica, la redistribuzione degli impegni tra i dipendenti, la salvaguardia dell’occupazione, l’aumento dei salari, il rilancio degli investimenti e della produttività. Non solo al Nord, ma anche e soprattutto in quel Sud dove i livelli di occupazione e dei salari sono storicamente più bassi, come un dossier dell'istituto Tagliacarne ha evidenziato pochi giorni or sono. Anche in questo caso, però, è indispensabile una massiccia dose di buon senso per evitare che la settimana corta si trasformi nell’ennesimo boomerang. Preliminarmente è indispensabile trovare un punto di equilibrio che non danneggi la produzione, da un lato, ed escluda qualsiasi riduzione dei salari, dall’altro. Senza dimenticare la necessità di individuare con attenzione i settori ai quali la settimana cortissima possa essere opportunamente applicata. In questa prospettiva, l’introduzione della settimana corta non può non essere accompagnata da incentivi alle imprese, investimenti nel mercato del lavoro, formazione e impegno per creare posizioni professionali caratterizzate da competenze specifiche. In un simile contesto, imprese e sindacati potrebbero concordare le modalità di riduzione dell’orario più in linea con le esigenze che abbiamo indicato in premessa: una settimana lavorativa spalmata su quattro giorni da nove ore ciascuno, come è orientata a fare Intesa Sanpaolo, o un semplice “venerdì breve” da maggio a settembre, come Lavazza ha preferito. Una soluzione equilibrata potrebbe consistere in una settimana da quattro giorni lavorativi, caratterizzati da turni più lunghi sostenuti da dipendenti adeguatamente formati, gradualmente inseriti nell’organizzazione e in numero adeguato. A queste condizioni, i rischi connaturati alla proposta di settimana corta, sostenuta in Italia non solo dalla Cisl ma anche dalla Cgil, sarebbero scongiurati. Mi riferisco innanzitutto al pericolo di un rafforzamento dell’emigrazione dal Sud, dove i livelli occupazionali sono molto più bassi, al Nord, dove la concentrazione del lavoro è invece storicamente più consistente. Altrettanto forte è il rischio che politiche poco lungimiranti depotenzino i benefici che la settimana corta, come dimostrato anche dal dossier di Autonomy, è in grado di apportare: più benessere per i lavoratori, imprese più produttive e più capaci di attrarre personale. I pericoli, dunque, non mancano ma vanno opportunamente previsti e scongiurati, anche perché sostanzialmente inferiori ai benefici che una simile rivoluzione del mercato del lavoro sarebbe in grado di garantire: la politica agirà di conseguenza? Raffaele Tovino *dg Anap
Autore: Raffaele Tovino 26 feb, 2023
RAFFAELE TOVINO* Le prospettive delle imprese, i salari dei lavoratori, senza dimenticare quell’imp rescindibile patto di fiducia tra Stato, contribuenti e operatori economici. Il decreto con cui il governo Meloni ha eliminato la possibilità di fruire dell’agevolazione per tutti i bonus fiscali, a cominciare dal Superbonus, tramite sconto in fattura o cessione del credito, mette in discussione tutti questi valori. E proprio per questo motivo è indispensabile che sulla questione si trovi al più presto un accordo, possibilmente senza cedere a facili ideologismi che sono sempre dietro l’angolo. Partiamo dai numeri. Nel corso di una recente audizione in Commissione Finanze e Tesoro, il direttore generale del Ministero ha evidenziato come la previsione di fabbisogno per il Superbonus ammonti a 61 miliardi, circa 25 più di quanto originariamente preventivato. E, al momento, l’agevolazione introdotta dal governo Conte è stata utilizzata per ristrutturare soltanto il 2% del patrimonio edilizio. Bastano questi dati per comprendere come la misura, alla quale va riconosciuto l’innegabile merito di aver contribuito alla rivitalizzazione di un settore cruciale per l’economia nazionale come quello dell’edilizia, sia alla lunga poco sostenibile. Davanti all’evidenza dei numeri, il governo Meloni ha decretato lo stop allo sconto in fattura e alla cessione del credito, provocando la prevedibile levata di scudi di imprese e sindacati e vedendosi successivamente costretto ad aprire un tavolo di confronto con tutti gli attori della vicenda. Qui non ci si può esimere dal fare un’osservazione: sebbene per far quadrare i propri conti, l’esecutivo ha prima deciso e solo in un secondo momento si è “piegato” a concertare, senza peraltro dimostrare di avere una soluzione strutturale al problema. Si tratta di un evidente errore di metodo, per la verità ripetuto anche per quanto riguarda l’ex Ilva e l’autonomia differenziata, capace di minare la fiducia tra lo Stato e i cittadini. E qui passiamo al merito della vicenda. Le imprese, che facevano affidamento sullo sconto in fattura e sulla cessione del credito, vedono ora minate le proprie certezze. Il rischio che migliaia di ditte restino prive di liquidità e che i cantieri si fermino, infatti, è particolarmente alto. Le conseguenze sarebbero devastanti: secondo l’Ance Puglia, nella regione rischierebbero il licenziamento circa 30mila tra operai e tecnici. Una soluzione potrebbe essere quella restituire alle banche la possibilità di utilizzare i crediti in compensazione con modello F24 per una parte dei debiti dei propri clienti. E questo sembra l’escamotage più rapido ed equo: l’alternativa sarebbe la cartolarizzazione, cioè la vendita delle somme a società specializzate che per pagarne il prezzo di acquisto emetterebbero dei titoli. Oltre le imprese, però, i contribuenti attendono una soluzione. Il decreto adottato il 16 febbraio scorso dal governo Meloni, infatti, restringe la possibilità di fruire dei bonus soltanto ai contribuenti capienti: chi ha un reddito basso non riesce a scontare le spese e, quindi, a beneficiare dell’agevolazione. Come se ne esce? Si potrebbe abbassare da subito la quota di spese detraibili dal 90 al 65%, previsione tra l’altro già contenuta nella legge di bilancio del 2022 ma per le spese compiute a partire dal 2025. Oppure si potrebbe consentire a chi ha un reddito basso di ottenere il rimborso della parte di detrazione che, non avendo abbastanza imposte da pagare, non riesce a utilizzare. Insomma, le soluzioni ci sono e vanno vagliate al più presto: in gioco non c’è solo il futuro di migliaia di imprese e famiglie, soprattutto al Sud, ma anche la tenuta del patto di fiducia tra lo Stato e gli italiani. Raffaele Tovino *dg Anap
Autore: Raffaele Tovino 23 feb, 2023
di Raffaele Tovino* In Italia il fenomeno dell’astensionismo dilaga, ma non c’è troppo da chiedersi perché. Nessun opinionista deve andare troppo lontano da ciò che accade sotto i suoi occhi per risalire alle cause di una tendenza che sembra ormai incontrovertibile. Nessuna sorpresa e meraviglia, insomma. Succede perché il cittadino – imprenditore o lavoratore che sia – non solo non ha perso la fiducia nei decisori politici, ma li teme come fonte principale di problemi che hanno come unico esito: la consapevolezza degli italiani di vivere in un Paese ingiusto. O almeno un Paese che non è serio. Infatti ci sarebbe da ridere, se la situazione non fosse seria e per molti italiani drammatica. Anche col Superbonus è prevalsa la consuetudine italica di fare e disfare, costruire e poi distruggere, cambiando le regole in corsa, strada facendo. Un difetto che sembra non sradicabile perché parte del nostro Dna. Ecco ciò fa dell’Italia, agli occhi degli investitori stranieri (e ormai a grande parte degli elettori), una nazione dalle abitudini incomprensibili. Ed a proposito di superbonus, è noto che un decreto del governo ha bloccato la cessione del credito e lo sconto in fattura per tutti i nuovi interventi edilizi, riconoscendo solo quelli che hanno già presentato la comunicazione di inizio lavori. E non è la prima correzione di rotta, perché i rimpalli e i rattoppi per sistemare il caos generato dalla misura iniziano il giorno dopo della sua approvazione. Resta valida (per ora?) la detrazione fiscale portata in dichiarazione dei redditi, passaggio che tuttavia richiede che prima si spenda per poi recuperare, nel tempo, la somma. Una mossa, secondo le associazioni di categoria, che mette a rischio di fallimento più di 25mila imprese. Quindi non sarà più possibile accedere allo sconto in fattura né alla cessione del credito di imposta, mentre resta la possibilità di detrarre gli importi. In particolare, il decreto abroga le norme che prevedevano la possibilità di cedere i crediti per tutti i nuovi interventi edilizi. Il governo quindi blocca l’acquisto dei crediti, sovvertendo il criterio che inizialmente consentiva agli enti pubblici di intervenire, senza aver individuato ancora una soluzione alla conseguenza certa di spingere al fallimento migliaia di imprese che sono rimaste senza liquidità, bloccando quini i cantieri si fermeranno del tutto. “Non posso credere – ha dichiarato Federica Brancaccio, presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance), – che il governo pensi di fermare il processo di acquisto dei crediti da parte delle Regioni senza prima aver individuato una soluzione strutturale che eviti il tracollo”. E alla fatidica domanda – a quanto ammonta il danno? – la risposta della Brancaccio è stata chiara e inequivocabile: i crediti già in attesa di essere acquistati ammontano a più di 15 miliardi, il che si traduce in un totale di oltre 25 mila imprese in pericolo, senza liquidità e, quindi, a rischio fallimento. Ma veniamo al punto centrale. Che cosa può mai importare a Luigi Rossi, imprenditore o lavoratore che sia, che il superbonus sia stato concepito dal governo Conte e che adesso c’è un governo espresso da un’altra maggioranza? Perché mai deve essere trascinato in un regolamento di conti tra l’attuale maggioranza e quella che ha governato prima di Mario Draghi? E ancora: come possiamo pretendere rispetto e considerazione nel mondo, anzitutto dagli investitori stranieri, se il nostro Paese mostra di vivere sempre in un clima elettorale, con una classe politica che appare capace solo di polemiche e contrapposizioni tipiche delle tifoserie allo stadio? Ragion per cui: risparmiateci almeno lagne e piagnistei che seguono al giorno delle consultazioni. Perché continuare così? Come sistema Paese ci facciamo solo del male. Non ci capiscono gli investitori stranieri, non lo giustificano con il loro buone senso gli stessi elettori. L’economia italiana si avvia ad evitare la recessione anche nel 1° trimestre del 2023. Nelle previsioni dei diversi analisti per il 2023, il PIL italiano va meglio dell’atteso. Il prezzo dell’energia è sceso, quello dei metalli risale, ma c’è meno inflazione e quindi si intravede la svolta per i tassi. L’Italia si dimostra molto resiliente, con l’industria che migliora, anche se non le costruzioni, e i servizi in crescita. Tengono i consumi delle famiglie, gli investimenti sono in ripresa, ci sono più occupati ma anche più scarsità di manodopera. L’export è in frenata, tra un’Eurozona con una ripresa diseguale e gli USA in cui la crescita è senza industria. *direttore generale ANAP – Associazione nazionale aziende e professionisti Pubblicato: IlDenato.it
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