Confederazione Italiana Micro, Piccole e Medie Imprese


Blog A.N.A.P.

Autore: Raffaele Tovino 23 apr, 2023
Chi si aspettava di vedere rafforzata la sanità pubblica, soprattutto laddove essa è più carente e cioè al Sud, è destinato a rimanere deluso. Nel Def recentemente licenziato dal Consiglio dei ministri, si prevede infatti, nell’immediato, una riduzione della spesa per il personale sanitario seguita, nel medio-lungo periodo, da un aumento piuttosto contenuto. Tanto che molti, anche tra i non addetti ai lavori, hanno cominciato a chiedersi: come pensa, il governo Meloni, di migliorare la qualità dell’assistenza oltre che colmare tutte le lacune che la pandemia ha impietosamente evidenziato? La domanda non è peregrina se analizziamo i numeri. Il Def parla di payback per i dispositivi medici e di incentivi per rispondere alla carenza di personale nei pronto soccorso, ma dice poco o nulla sull’operatività delle case e degli ospedali di comunità contemplati dal Pnrr. Quest’ultimo, infatti, prevede che le Regioni realizzino 1.350 case di comunità e 400 ospedali di comunità con l’obiettivo rafforzare la medicina territoriale. In Emilia- Romagna, unica regione italiana a vantare già un certo numero di cosiddette “case della salute”, questa rete ha dimostrato di funzionare: gli accessi inappropriati al pronto soccorso sono diminuiti di oltre il 16% e i ricoveri per patologie croniche del 2,4%, mentre è aumentata del 9,5% l’assistenza medica e infermieristica a domicilio. Nelle case di comunità, però, si prevede la presenza di 7-11 infermieri, di un assistente sociale e di 5-8 unità di supporto. Numeri simili per gli ospedali di comunità, dove dovrebbero lavorare tra 7 e 9 infermieri, un medico e un paio di unità di altro personale sanitario. Insomma, per conseguire i risultati già registrati in Emilia-Romagna servirebbe un “esercito” di nuovi medici e infermieri. E invece il governo Meloni che cosa fa? Nel Def ipotizza una riduzione della spesa per il personale sanitario al 6,2% del pil nel 2025 e un aumento al 7% tra il 2040 e il 2050. Proprio così. Il rischio, però, è che senza quell’esercito di medici e infermieri che appare già da tempo indispensabile, la “guerra” per il miglioramento dell’assistenza territoriale sia destinata a essere persa. Guardiamo in casa nostra: nella sola Asl di Bari, fino a poche settimane fa, risultavano non coperti 19 posti di assistenza primaria del 2022, ai quali se ne aggiungeranno altri nel 50 nel 2023, con la conseguenza che mancano all’appello ben 69 medici di famiglia. Non va meglio per i medici ospedalieri: secondo la Cgil, che poche settimane fa è scesa in piazza per protestare proprio contro le inefficienze della sanità locale, ne mancano all’appello addirittura 3mila in tutta la Puglia. In definitiva, ci sono edifici da costruire e nuovi servizi da strutturare, ma Palazzo Chigi sembra non avere le idee troppo chiare su come intende animare quegli stessi edifici e quegli stessi luoghi. Poco dice sulle risorse disponibili per assumere il personale, ma ancora meno parla di specializzazioni, formazione universitaria e programmazione delle figure professionali indispensabili per rivoluzionare la società e magari correggere le antiche sperequazioni che, anche sotto il profilo dell’assistenza, ha contrapposto regioni di serie A e di serie B. Sul personale servono scelte strategie chiare. Altrimenti il Paese dimostrerà di aver capito poco o nulla della dura lezione impartita dal Covid. Raffaele Tovino dg A.N.A.P.
Autore: Raffaele Tovino 16 apr, 2023
Certo, lo scenario economico impone prudenza. Eppure non sembra ingeneroso sottolineare come al Documento di economia e finanza (Def), recentemente licenziato dal Consiglio dei ministri, manchi il coraggio indispensabile per rilanciare l’Italia, a cominciare dal Sud, una volta per tutte. Lo dimostrano due aspetti del testo illustrato dal ministro Giancarlo Giorgetti: le poche risorse destinate alla riduzione del cuneo fiscale e la mancata previsione di misure realmente in grado di sostenere le imprese e, per questa strada, gli investimenti e le assunzioni. Partiamo dal primo elemento. Nel Def spiccano maggiori risorse sul 2023 che il governo Meloni ha prudentemente quantificato in tre miliardi e che saranno spese per portare la crescita del pil dallo 0,9 all’1%. Sempre il governo Meloni ha annunciato che quei soldi saranno utilizzati per la riduzione del cuneo fiscale, attraverso un taglio dei contributi sociali in busta paga, a beneficio dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi. Si tratta di un segnale positivo, ma l’entusiasmo cede ben presto il passo alla delusione se si riflette su alcuni dati: in Italia ci sono 23 milioni di lavoratori, sicché tre miliardi non bastano per far sì che il taglio dei contributi sociali sia percepito nel momento in cui una parte di quegli stessi lavoratori incassa lo stipendio. In altri termini, il beneficio si tradurrebbe in pochi euro in più al mese. Ma che se ne fa un lavoratore, magari con moglie e un paio di figli a carico, di una pizza o di un pacchetto di sigarette in più ogni trenta giorni? Quando nel 2014 introdusse il bonus di 80 euro, l’allora governo Renzi stanziò dieci miliardi, più del triplo di quanto oggi prevede l’esecutivo Meloni. L’altro aspetto riguarda le imprese. Nei suoi 12 punti, di fatto, il Def le dimentica. All’interno del testo, infatti, c’è soltanto la promessa di una riduzione dell’Ires per le imprese che assumono o che fanno determinati tipi di investimenti. Il resto è un mare magnum di generiche previsioni di aiuti contro l’inflazione e di misure per il rafforzamento della capacità produttiva. Si parla di una riduzione della pressione fiscale dall’attuale 43,3 al 42,7% nel 2026, il che lascia sicuramente ben sperare. Ma è troppo poco per un Paese in cui decenni di miopi politiche di sviluppo, burocrazia in costante crescita e continue crisi congiunturali hanno devastato quelle piccole e medie imprese che da sempre costituiscono il tessuto connettivo dell’economia nazionale. Tirando le somme, propositi come la riduzione della pressione fiscale e il rafforzamento della capacità produttiva sono certamente condivisibili, soprattutto per quanto riguarda il Mezzogiorno. Certi obiettivi, però, vanno perseguiti con le giuste risorse e con le giuste strategie. Altrimenti rischiano di tramutarsi nell’ennesimo spot elettorale, magari utile per guadagnare qualche punto nei sondaggi o una manciata di voti in più in occasione delle elezioni, ma certo non per rilanciare un Paese che ha invece bisogno di sviluppo, prospettive e fiducia. Raffaele Tovino *dg Anap
Autore: Raffaele Tovino 09 apr, 2023
A un occhio poco attento, i numeri del decreto appena approvato dal Consiglio dei ministri potrebbero sembrare straordinari: 1.057 assunzioni nei Ministeri, di cui 300 al Viminale, e altre 1.968 nelle forze dell’ordine, senza dimenticare la possibilità di stabilizzare i precari che negli ultimi otto anni abbiano lavorato per almeno 36 mesi non consecutivi al servizio di Comuni, Città metropolitane, Province e Regioni. Il tutto per colmare quelle carenze di organico, più volte sottolineate dalla Svimez con specifico riferimento agli enti locali, che stanno rallentando l’attuazione del Pnrr e hanno portato il ministro Raffaele Fitto a giudicare addirittura “matematica ” la mancata realizzazione di alcuni progetti contenuti nel Piano entro il 2026. A parte la perplessità relativa al Ministero della Giustizia, inspiegabilmente escluso dal programma di reclutamento straordinario di personale appena varato dal governo Meloni, c’è un aspetto che merita di essere sottolineato. Il decreto risponde all’esigenza di “rimpolpare” a stretto giro le pubbliche amministrazioni direttamente coinvolte nell’attuazione del Pnrr, ma non è certo una misura strutturale capace di risolvere una volta per tutte l’atavico problema della carenza di organico negli enti pubblici. Ed è proprio sulla necessità di un grande programma di rafforzamento della pubblica amministrazione, soprattutto al Sud, che Palazzo Chigi dovrebbe ragionare e intervenire in modo serio. L’Italia, infatti, è reduce da un decennio drammatico in cui il blocco del turnover ha ridotto il personale in servizio negli enti pubblici da 3,5 a 3,2 milioni (dunque di ben 300mila unità), facendo peraltro salire l’età media dei dipendenti a 50 anni. La Puglia non è estranea a questa tendenza, se si pensa che a Bari e dintorni mancano all’appello circa 10mila dipendenti pubblici, come il segretario della Cgil Fp locale Domenico Ficco ha opportunamente ricordato sulle pagine de “L’Edicola del Sud”: una voragine che il decreto appena licenziato dal Consiglio dei ministri non riuscirà mai a colmare. Soltanto nel 2021, in Italia, si è ripreso ad assumere, mentre nel 2022 gli ingressi nella pubblica amministrazione sono stati circa 170mila, di cui 156mila volti a sostituire il personale pensionato. Per il 2023, stando a quanto annunciato dal ministro Paolo Zangrillo, sono in programma altre 150mila assunzioni e così si andrà avanti anno fino al 2026. Certo, gli sforzi compiuti dal governo Meloni per superare l’impasse del Pnrr e rafforzare la pubblica amministrazione lasciano ben sperare. Ma bisogna fare molto di più per far sì che il Paese si dimostri all’altezza delle sfide epocali dalle quali è atteso nei prossimi anni. È indispensabile, innanzitutto, semplificare e sburocratizzare le procedure di reclutamento all’interno della pubblica amministrazione. La pandemia ha di fatto costretto l’Italia a dematerializzare tanti passaggi di quell’iter, puntando su un’ampia digitalizzazione di documenti e step procedimentali. Non ci si può né ci si deve accontentare, ma piuttosto bisogna impegnarsi per rendere le assunzioni nel settore pubblico sempre più “smart”, seppur nel doveroso rispetto dei criteri di trasparenza. Altrettanto indispensabile è rendere il lavoro nella pubblica amministrazione maggiormente attrattivo. Il che non vuol dire soltanto retribuire in modo dignitoso i dipendenti, ma far comprendere loro che nel settore pubblico possono crescere a livello personale, da un lato, e, dall’altro, contribuire in maniera decisiva allo sviluppo della comunità nazionale. Quindi non si tratta semplicemente di rispondere alla “emergenza” rappresentata dal Pnrr, ma di attrezzare l’Italia in vista di una lunga serie di appuntamenti di cruciale importanza. Anche da questo si misureranno la credibilità e la visione politica dell’attuale classe politica. Raffaele Tovino *dg Anap
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